Nel viaggio che compiamo con ogni paziente e durante la messa in scena di ogni seduta, incontriamo pezzi dell’altro e incontriamo pezzi di noi, richiamati gli uni dagli altri.
Mi piace il teatro anche come luogo fisico perché rappresenta bene al suo interno ciò che intendo fare nel mio lavoro e nel mio studio; come arte e medicina del recupero della complessità, delle storie, delle ragioni e degli eventi.
Amo pensare al mio studio come a un piccolo teatro dell’intimo dove vengono messe in scena continuamente storie diverse, sul cui tabellone della mente sfilano continuativamente personaggi, eventi, ricordi, fantasmi, eroismi, commedie, tragedie, illusionismi sempre nuovi e nello stesso tempo così antichi; perché l’umanità e la storia delle generazioni passate e presenti è stratificata in noi, nelle sedimentazioni della nostra memoria conscia e inconscia che ci rende partecipi di una collettività, e ci rende essa stessa una collettività in un unico individuo.
Trasformare lo studio in un teatro e ancora ogni paziente in un teatro, evidenziando la grande capacità di ognuno di noi di contenere al proprio interno tutto questo, in un continuo cambiamento di ruoli, talvolta protagonisti, talvolta pubblico, talvolta guardarobieri, fa divenire l’arte della terapia uno spettacolo potenzialmente senza fine.
Poter considerare poi ogni paziente come parte del nostro teatro interno e considerare il noi, la coppia che si crea tra paziente e terapeuta, come un elemento che è a sua volta un altro teatro: un luogo altro, dentro al quale la coppia sogna insieme e insieme si conosce, confrontandosi sull’esistenza e con l’esistenza di un mondo psichico conosciuto, uno sconosciuto e uno inconoscibile.