La cultura psichiatrica e il fare clinica è in continuo divenire e come ogni altra scienza risente non solo di ciò che l’evoluzione tecnologica porta a scoprire, ma anche delle variabili culturali, sociali, religiose, politiche che vivono nel momento storico di riferimento, risente quindi anche di ciò di cui è composto colui che la mette in pratica.
Nel secolo scorso, in particolare, tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’70 del novecento, la psichiatria scossa dai venti rivoluzionari provocati da medici e psichiatri cambiò notevolmente. In molti furono a muoversi in favore di quella che venne definita l’antipsichiatria, una corrente di pensiero che divenne poi pratica che puntava a riportare al centro l’umanità, la storia di ogni paziente e a riconsiderare profondamente quelle che potevano essere le cause del dolore mentale confontandosi anche duramente con i metodi di cura e diagnositici fino ad allora utilizzati.
Sono passati molti anni da quando chi veniva internato era obbligato a vivere in uno stato di coercizione e di terapia coatta. Sono passati molto anni da quando la malattia mentale veniva considerata un’onta da allontanare, per l’individuo, per la famiglia, per la società.
La sensibilità e la preparazione di molti medici, psichiatri, psicoanalisti ha permesso una profonda riscrittura delle tematiche psichiatriche e di come esse si intersecano con i valori sociali, individuali, politici.
Pare oggi che il buon spirito evolutivo che questa spinta ha portato continui a soffiare ma avverto talvolta in quello che ascolto, che vedo, che leggo, una sorta di deriva antidiagnostica per cattiva interpretazione, nei casi peggiori per incapacità; persone che lavorano sulla salute mentale che sbandierano il loro intento di evitare di fare diagnosi ai propri pazienti come a sottolineare il loro desiderio di non chiudere, il paziente appunto, entro una determinata casella.
Ritengo questa posizione non solo ignorante ma realmente pericolosa e paradossalmente molto poco rispettosa di ciò che ogni paziente ci viene a chiedere, più o meno direttamente, nei nostri studi o nei nostri ambulatori.
Ogni paziente porta un malessere e perchè questo malessere possa essere trattato deve necessariamente essere inquadrato e diagnosticato. Fare diagnosi non è e non può essere ridurre la persona alla diagnosi, fare diagnosi e saperla fare, è chiedersi che cosa fa star male il paziente, è chiedersi cosa ha portato quella persona a sviluppare un disturbo, è poter, sulla base della risposta a queste domande, individuare un tipo di intervento mirato piuttosto che un altro. E’ rispettare il desiderio del paziente di essere guarito per ciò che lo fa star male ed è ciò che pemette a noi di rispondere alla sua chiamata in modo etico e professionale.
L’assenza di diagnosi comporta oscurantismo, causata da una cattiva interpretazione di quelli che sono stati i moti antipsichatrici, talvolta dall’incapacità di prendersi la responsabilità di fare una scelta per il paziente.
Non andremmo mai da un chirurgo che ostenta la sua reticenza nel fare una diagnosi prima di operarci, come non andremmo mai da un meccanico che ci informa che smonterà il motore della nostra auto senza prima provare neppure a metterla in moto per ascoltare i suoi rumori, perchè dovremmo affidarci a un professionista della mente che ci dice che non farà diagnosi?
La diagnosi è e deve essere il primo passo di un percorso di cura. E’ la domanda che ogni clinico deve farsi e continuare a farsi mentre opera su un paziente.
Come psicoterapeuta e come supervisore è una domanda che ho sempre in mente, una domanda che porto dentro le mie sedute e dentro le mie supervisioni. E’ una domanda che, se ben indirizzata, diviene la porta attraverso la quale realmente incontriamo il paziente perché ogni paziente ci porta il suo dolore, e ogni paziente desidera che troviamo e che tocchiamo quel dolore.
Tenendo a mente che il paziente non è quel dolore e solo quello, impariamo di nuovo tutti a fare diagnosi.
Dr. Manrico Caputo
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